IL GIOVANE POETA: GIACOMO LEOPARDI

 

Giacomo Leopardi

Poeta

Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi, è stato un poeta, filosofo, scrittore, filologo e glottologo italiano. 

 

Data di nascita29 giugno 1798, Recanati

Data di morte14 giugno 1837, Napoli

Luogo di sepoltura1939, Parco Vergiliano a Piedigrotta

CanzoniAmore e morteA Silvia

GenitoriAdelaide Antici LeopardiMonaldo Leopardi

 

FratelliPaolina LeopardiCarlo Orazio LeopardiPierfrancesco LeopardiLuigi Leopardi


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L'infinito è una delle più celebri poesie di Leopardi: composta nel 1819, si trova nella raccolta degli Idilli. Con il termine "idillio" l'autore si richiama alla tradizione poetica classica di Teocrito e dei poeti alessandrini. L'idillio è un'immagine piccola, ristretta e limitata. Così paradossalmente il senso del limite e la visuale ristretta sono alla base dell'Infinito.
Nel componimento ci si trova davanti a una doppia immagine: quella degli occhi, limitata e sbarrata, e un'immagine virtuale, che "nel pensier si finge". L'immagine creata dal poeta è così forte e intensa che per poco il suo animo non si spaventa. In tutta la poesia è presente un passaggio tra ciò che vediamo e sentiamo e ciò che immaginiamo, ricordiamo e presentiamo. Questo continuo spostamento tra piano reale e piano fittizio, che Cortellessa esprime parlando di oscillazione tra "piano empirico" e "piano virtuale", spinge il soggetto all'estremo limite delle sue facoltà razionali. Ciò ricorda a Leopardi
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ASCOLTA  DALLA VOCE DI VITTORIO GASSMAN LA POESIA L'INFINITO. SUCCESSIVAMENTE, LEGGI IL TESTO  ED ESEGUI L'ANALISI E RELATIVO COMMENTO SUL TUO QUADERNO DI LAVORO



L'INFINITO

  1. Sempre caro mi fu quest'ermo colle 1,
  2. e questa siepe, che da tanta parte
  3. dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
  4. Ma sedendo e mirando, interminati
  5. spazi di là da quella, e sovrumani
  6. silenzi, e profondissima quïete
  7. io nel pensier mi fingo 2, ove per poco
  8. il cor non si spaura 3. E come 4 il vento
  9. odo stormir tra queste piante, io quello
  10. infinito silenzio a questa voce
  11. vo comparando: e mi sovvien l'eterno 5,
  12. le morte stagioni, e la presente
  13. e viva, e il suon di lei. Così tra questa
  14. immensità s'annega il pensier mio:
  15. e il naufragar m'è dolce in questo mare.

1. ermo colle: Il monte Tabor, un colle che si alza a sud di Recanati.

2 io nel pensier mi fingo: cioè, “immagino questa situazione con gli strumenti della mia fantasia”.

3 il cor non si spaura: il motivo è presente, com’è noto, anche nei Pensieri di Blaise Pascal: “Le silence éternel de ces espaces infinis m’effraie” [“il silenzio eterno di questi infiniti spazi mi spaventa”].

4 La congiunzione ha qui una sfumatura anche temporale: “quando”, “non appena”.

5 mi sovvien l’eterno: indica la repentinità del movimento di pensiero del poeta che, di fronte all’infinito e al nulla in cui l’uomo pare annientarsi e al rumore del vento tra le fronde che gli suona noto e famigliare, intuisce il senso dell’eternità e del trascorrere dello spazio-tempo contrapposto alla finitezza dell’uomo.




UNA BUONA LETTURA ...................

PER  COMPRENDERE LA POESIA A LIVELLO SINTATTICO E METRICO


In questo idillio, come è noto, Leopardi vuole suscitare nel lettore principalmente due sensazioni: una visiva e un auditiva. La prima porterà alla percezione di un infinito spaziale e la seconda temporale. Tali percezioni di infinità - come ha ormai certificato la critica moderna - non concedono niente alla teologia, alla metafisica e, più in generale, all’ambito del sacro, ma sono tutte interne alla finzione immaginativa e poetica. È più giusto dunque parlare, come osserva Walter Binni, di un canto “sorretto da un sobrio e solido processo intellettuale, da un movimento di esperienza interiore, quasi un itinerarium mentis in infinitum”. L’idillio è insomma - coerentemente alla definizione che si legge nei Disegni letterari - “un'avventura storica dell'animo” del poeta, che racconta di un'estasi dei sensi, i quali, di fronte alla figurazione momentanea dell’infinito, prima si “spaurano” e poi “naufragano dolcemente”. Per rendere questo duplice piano psicologico-percettivo Leopardi adotta precise tecniche espressive, che esemplificano al meglio la sua idea di poesia “vaga e indefinita” teorizzata a più riprese nelloZibaldone (cfr. almeno pp. 514-16, 1430-31, 1744-47), la quale, a sua volta, trova il principale nucleo ideologico nella famosa "teoria del piacere" (pp. 165-72), dove, tra l’altro, si parla proprio dell’“inclinazione dell’uomo all’infinito” (Zibaldone, luglio 1820)

Iniziamo ad osservare la sintassi. A parte il primo e l’ultimo verso, i restanti tredici non formano enunciazioni isolabili, ma sono legati tra loro in un “continuum metrico-sintattico”, come lo definisce Luigi Blasucci, che abbraccia l’intera poesia. Se guardiamo il totale dei versi, infatti, balza immediatamente all’occhio che ben dieci sono collegati da enjambements, che così contribuiscono a sviluppare un discorso poetico assai “legato” e coeso. Non solo. Avverbi, congiunzioni e connettivi in genere abbondano in tutto l’idillio: “ma sedendo” (v. 4), “ove per poco” (v. 7), “e come il vento” (v. 8), “e mi sovvien” (v. 11), “così tra questa immensità” (vv. 14-15), “e il naufragar” (v. 15).  La congiunzione, poi, ha un ruolo veramente determinante perché collega per polisindeto tanto i singoli elementi descrittivi (vv. 5-7: “interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi e profondissima quiete”), quanto i passaggi tematici della poesia, trovandosi in quest’ultimo caso sempre in posizione forte di inizio verso o di inizio proposizione (v. 2: “e come il vento”; v. 15: “e il naufragar”).

Anche il lessico è volutamente selezionato, così da allontanare le percezioni di finitudine, di concretezza e di precisione a vantaggio di una sensazione indeterminata e dilatata sia nello spazio che nel tempo. Nella prima parte (quella dedicata all’infinito “spaziale”) Leopardi sceglie aggettivi polisillabici, con valore superlativo (“interminati”, v. 4; “sovrumani”, v. 5; “profondissima”, v. 6), accoppiandoli a sostantivi astratti di valore assoluto (“spazi”, v. 5; “silenzi”, v. 6; “quiete”, v. 6). Mantengono lo stesso valore anche i sostantivi della seconda parte (ove predomina l’infinito “temporale”) come “eterno” (v. 11) e “stagioni” (v. 12), affiancati però ad aggettivi con un minor numero di sillabe: non più quadrisillabi o pentasillabi, ma trisillabi: “morte” (v. 12), “presente” (v. 12), “viva” (v. 13). Ancora più brevi le scelte lessicali del momento conclusivo, dove si scende a due sillabe: “dolce” (v. 15) e “mare” (v. 15). Una funzione essenziale rivestono, inoltre, gli aggettivi dimostrativi, che collocano nello spazio l’esperienza psicologica della poesia, che pure trascende uno spazio e un luogo specifici. Inizialmente essi accompagnano riferimenti toponomastici precisi (“quest’ermo colle”, v. 1; “questa siepe”, v. 2; e “queste piante”, v. 9, sono senz’altro quelli che il poeta ha davanti a sé, vale a dire sul Monte Tabor di Recanati, dietro il “paterno ostello”), per poi andare ad affiancare elementi con valenza più generica e indeterminata (“questa immensità”, vv. 13-14; “questo mare”, v. 15).

Infine vale la pena osservare - sempre con l’aiuto degli insostituibili studi di Luigi Blasucci - come tutto l’idillio sia pervaso da un’atmosfera emotivamente vibrante, in cui traspare il coinvolgimento non solo di un io fittizio e impersonale, ma anche di un io interno e effettivamente coinvolto nell’esperienza. Pare insomma che Leopardi, da questi celebri versi, voglia anche lasciar intravedere in filigrana il suo volto, il suo rapporto col luogo da cui si irradia questa esperienza. Lo si può ben osservare nel primo verso dove il “colle”, teatro della scena, è luogo da “sempre caro”, carico quindi di ricordi e di familiarità (confermata dall’incipit di Alla luna, vv. 1-3: “O graziosa luna io mi rammento | che, or volge l’anno, sovra questo colle | io venia pien d’angoscia a rimirarti”). E lo si può notare dall’uso, in seguito ripetuto, del dativo etico o d’affetto espresso dal sintagma “mi”. Dunque un luogo dell’assoluto, senz’altro; ma anche un luogo reale, che fu da sempre “a me” - cioè a Giacomo Leopardi - “caro”, e un “naufragare” dei sensi che “a me”, al poeta e filosofo precocemente impegnato nel disvelamento dell’“arido vero”, non può che riuscire “dolce”. 

Bibliografia essenziale:

- W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973.
- L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985.
- F. Brioschi, La poesia senza nome. Saggio su Leopardi, Milano, Il Saggiatore, 1980.


IL SABATO DEL VILLAGGIO

l sabato del villaggio di Leopardi viene composto nel mese di settembre del 1829. Il componimento è una canzone libera in endecasillabi e settenari, raggruppati in quattro strofe di lunghezza differente. La lirica è divisa in due parti asimmetriche (come sarà nella Quiete dopo la tempesta, composta nello stesso periodo, anche se in quel caso le due parti sono di uguale ampiezza). Anche tematicamente le due liriche sono simili: entrambe, infatti, trattano del piacere, inteso leopardianamente come l'attesa speranzosa di un bene.

Canzone recanatese composta con ogni probabilità sul finire di settembre del 1829 (più precisamente, dal 20 del mese in poi) e poi confluita nell’edizione Piatti dei Canti (Firenze, 1831).

Metro: Canzone di strofe libere, movimentata da rime, assonanze e rime al mezzo.

  1. La donzelletta vien dalla campagna,
  2. in sul calar del sole,
  3. col suo fascio dell’erba 1; e reca in mano
  4. un mazzolin di rose e di viole 2,
  5. onde, siccome suole,
  6. ornare ella si appresta
  7. dimani, al dì di festa 3, il petto e il crine.
  8. Siede con le vicine
  9. su la scala a filar la vecchierella 4,
  10. incontro là dove si perde il giorno;
  11. e novellando vien 5 del suo buon tempo,
  12. quando ai dì della festa ella si ornava,
  13. ed ancor sana e snella 6
  14. solea danzar la sera intra di quei
  15. ch’ebbe compagni dell’età più bella.
  16. Già tutta l’aria imbruna,
  17. torna azzurro il sereno 7, e tornan l’ombre
  18. giù da’ colli e da’ tetti,
  19. al biancheggiar della recente luna.
  20. Or la squilla dà segno
  21. della festa che viene;
  22. ed a quel suon diresti
  23. che il cor si riconforta.
  24. I fanciulli gridando
  25. su la piazzuola in frotta,
  26. e qua e là saltando,
  27. fanno un lieto romore:
  28. e intanto riede alla sua parca mensa,
  29. fischiando, il zappatore 8.
  30. e seco pensa al dì del suo riposo.
  31. Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
  32. e tutto l’altro tace,
  33. odi il martel picchiare, odi la sega
  34. del legnaiuol, che veglia
  35. nella chiusa bottega alla lucerna,
  36. e s’affretta, e s’adopra
  37. di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
  38. Questo di sette è il più gradito giorno,
  39. pien di speme 9 e di gioia:
  40. diman tristezza e noia
  41. recheran l’ore, ed al travaglio usato 10
  42. ciascuno in suo pensier farà ritorno.
  43. Garzoncello scherzoso,
  44. cotesta età fiorita 11
  45. è come un giorno d’allegrezza pieno,
  46. giorno chiaro, sereno,
  47. che precorre alla festa di tua vita.
  48. Godi, fanciullo mio; stato soave,
  49. stagion lieta è cotesta 12.
  50. Altro dirti non vo’; ma la tua festa
  51. ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
  1. La fanciulla ritorna dalla campagna,
  2. mentre il sole sta tramontando,
  3. col fascio dell’erba raccolta; e tiene in mano
  4. un piccolo mazzo di rose e viole,
  5. con cui, com’è solita fare,
  6. si prepara ad ornarsi,
  7. domani, giorno di festa, il petto e i capelli.
  8. Una donna anziana è seduta con le vicine
  9. a filare su una scale
  10. nel momento in cui si stempera la luce del giorno;
  11. e racconta compiaciuta della sua gioventù
  12. quando si preparava per i giorni di festa,
  13. e, mentr’era ancor bella e giovane,
  14. era solita ballare tra coloro che
  15. ebbe come compagni nella miglior età della vita.
  16. Ormai il tramonto è avanzato,
  17. il cielo si è fatto blu scuro, e scendono le ombre
  18. dai colli e dai tetti,
  19. illuminati dalla luna sorta nel cielo.
  20. Ora la campana manda il segnale
  21. che la festa si avvicina;
  22. e ti sembrerebbe che il cuore prende fiducia
  23. quando sente quel suono.
  24. I ragazzini, gridando in gruppo sparso,
  25. sulla piazzetta
  26. e saltando qua e là,
  27. fanno un piacevole rumore:
  28. e nel frattempo lo zappatore
  29. fischiettando, torna alla sua modesta cena
  30. e pensa tra sé e sé al giorno di riposo.
  31. Quando poi è spenta ogni altra luce,
  32. e tutto il paese e silenzioso,
  33. senti il martello battere, e la sega
  34. del falegname, che è ancor sveglio
  35. con la luce accesa nella sua bottega ormai
  36. chiusa e si dà da fare e si impegna
  37. di terminare il lavoro prima dell’alba.
  38. Questo è il giorno più lieto della settimana,
  39. pieno di aspettativa e di gioia:
  40. domani le ore del giorno porteranno
  41. con sé tristezza e tedio, e ciascuno farà
  42. ritorno colla propria mente al solito lavoro.
  43. O fanciullo spensierato,
  44. l’adolescenza
  45. è come un giorno pieno di felicità,
  46. un giorno limpido e luminoso,
  47. che anticipa la festa della tua vita.
  48. Lasciati andare alla gioia innocente, fanciullo mio;
  49. la tua è una stagione lieta e beata.
  50. Non voglio dirti altro; ma non avertene a male
  51. se la tua festa tarda a giungere.

1 col suo fascio dell’erba: allude alla raccolta di erba in campagna per l’alimentazione degli animali.

2 È su questo verso che si sono concentrati gli appunti critici di un finissimo esperto di botanica qualeGiovanni Pascoli che, in un suo intervento del 1896 (Il sabato del villaggio, ora in G. Pascoli, Poesie e prose scelte, tomo I, Milano, Mondadori, pp. 1107-1126), spiegava che la scena è irrealistica, poiché le viole sbocciano a marzo mentre le rose sono di maggio.

3 La rima al mezzo (“appresta | festa”) è ben studiata e assai musicale, in quanto separa l’endecasillabo del v. 7 in due emistichi composti da un settenario e un quinario.

4 Alla scena idillico-campestre si aggiunge un rimando intertestuale al sonetto di PetrarcaGià fiammeggiava l’amorosa stella (Canzoniere, XXXIII, v. 5: “Levata era a filar la vecchiarella”).

5 novellando vien: la forma continuativa del verbo sottolinea appunto il piacere della “vecchierella” nel rimembrare, perdendosi un po’ nei dettagli del ricordo, un’età lieta ed ormai passata della vita; è anche un modo per alludere al tema, tipicamente leopardiano, del malinconico ricordo della felicità svanita e tramontata.

6 sana e snella: i due aggettivi compongono quasi una dittologia sinonimica, intendendo la bellezza giovanile, ormai sfiorita da tempo per la “vecchierella”.

7 torna azzurro il sereno: indica il passaggio atmosferico dalla luce chiara del giorno al cielo azzurro cupo che precede di poco il tramonto definitivo del sole.

8 il zappatore: nella figura dell’umile contadino che “riede” a casa, si concentrano, oltre alla rappresentazione di un piccolo villaggio e dei suoi abitanti, una serie di memorie letterarie che rimandano ai grandi modelli della tradizione: da un lato la prima egloga di Virgilio (“Et iam summa procul villarum culmina fumant, | maioresque cadunt altis de montibus umbrae”), dall'altro la canzone petrarchesca Ne la stagion che ‘l cielo rapido inchina (Canzoniere, L, vv. 15-24), ripresa anche nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia. Da notare, anche l’attento studio sul gioco delle rime del v. 29, con una rima al mezzo che rimanda ai versi 24 e 26 (“gridando - saltando - fischiando”), e con la parola in chiusura di verso che rima con il verso 27 (“romore - zappatore”)

9 pien di speme: si ricordino le osservazioni dello Zibaldone del 1 ottobre 1823 (“Il primitivo e proprio significato di spes non fu già lo sperare ma l’aspettare indeterminatamente al bene o al male”), che poi suggeriscono a Leopardi anche un passo del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 13-14: “poi stanco si riposa in su la sera: | altro mai non ispera”).

10 In tal senso, il “travaglio usato” (e cioè, il lavoro quotidiano e costante) è “il maggior mezzo di felicità possibile”, dato che è “il mezzo di distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e generale e realizzabile nella vita” (Zibaldone, 12 febbraio 1821).

11 Ancora Petrarca, dal sonetto Ne l’età sua più bella e fiorita (Canzoniere, CCLXXVIII, 1).

12 In questa amara legge di vita, che un Leopardi ormai disilluso affida al suo “garzoncello scherzoso”, sembra risuonare una massima del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau che l’autore si annota in una pagina dello Zibaldone dell’aprile del 1829: “L’on n’est heureux qu’avant d’être heureux” [“non si è felici che prima di essere felici”]


listen carefully

COMPRENSIONE DEL TESTO

Introduzione

Il sabato del villaggio di Leopardi viene composto nel mese di settembre del 1829. Il componimento è una canzone libera in endecasillabi e settenari, raggruppati in quattro strofe di lunghezza differente. La lirica è divisa in due parti asimmetriche (come sarà nella Quiete dopo la tempesta, composta nello stesso periodo, anche se in quel caso le due parti sono di uguale ampiezza). Anche tematicamente le due liriche sono simili: entrambe, infatti, trattano del piacere, inteso leopardianamente come l'attesa speranzosa di un bene.

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SPIGOLATURE........

Il video propone, in chiave di racconto alcuni aspetti della vita privata dell'autore, raccontati da una lontana parente.


L'AMICIZIA CON PIETRO GIORDANI


PIETRO GIORDANI FU PER IL POETA UN GRANDE AMICO, NONCHE' CONSOLATORE SPECIALMENTE NEI MOMENTI BUI DELLA SUA VITA. CON LUI INTRAPRESE UNA LUNGA CORRISPONDENZA. 

lettere (97) di Pietro Giordani a Giacomo Leopardi (dal 1817 al 1829)


La loro fu un'amicizia molto forte. Infatti, sulla tomba del poeta c'è un'epigrafe dettata da Giordani che recita:“ AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE FILOLOGO AMMIRATO FUORI D’ITALIA SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI CHE FINI’ DI XXXIX ANNI LA VITA PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA FECE ANTONIO RANIERI PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIUNTO ALL’AMICO ADORATO. MDCCCXXXVII ”.

 Epigrafe posta sulla lapide di Giacomo Leopardi dettata e dedicata da Pietro Giordani (Piacenza 1774 - Parma 1848), amico di corrispondenza.


NOTA BIOGRAFICA SU PIETRO GIORDANI

Giordani, Pietro. - Letterato (Piacenza 1774 - Parma 1848). Benedettino nel 1797, abbandonò nel 1800 il monastero prima dell'ordinazione, e conservò dell'episodio un ricordo che contribuì a rendere più acceso il suo costante anticlericalismo. Prosegretario dal 1808 all'Accademia di belle arti di Bologna, lasciò l'ufficio e la città nel 1815, quando vi fu restaurato il governo pontificio; passò a Milano, dove, per la fama di elegantissimo prosatore già conseguita, fu condirettore della Biblioteca italiana, di cui scrisse il Proemio. Nel 1818 si ritirò a Piacenza, contento del modesto patrimonio, intento a promuovere opere di civiltà nella città, dedito più a leggere che a scrivere. Tra i più grandi titoli d'onore di G. resta l'aver intuito il genio poetico del giovane Leopardi, che visitò a Recanati  (1818), e confortò di consigli e di aiuti. Nel 1824, per avere usato in un suo scritto espressioni che sembrarono irriverenti verso la duchessa Maria Luisa, fu esiliato; ed egli, sebbene l'esilio fosse subito revocato, si stabilì a Firenze dove la sua fama si consolidò e ampiamente s'irradiò dal circolo di G. P. Vieusseux. Nel 1830 si stabilì a Parma; nel 1834 subì una breve prigionia politica. La sua vita fu un apostolato del progresso; non così la sua opera letteraria, che fu soprattutto di raffinato stilista, per il quale il contenuto era spesso poco più che un pretesto. Scrisse in sostanza poco e cose di breve respiro: orazioni, elogi (Panegirico a Napoleone, 1807; Elogio di A. Canova, del quale fu molto amico, 1801), ritratti, saggi artistici, pedagogici, letterarî, tra i quali notevole l'Istruzione a un giovane italiano per l'arte dello scrivere (1821), ma soprattutto ammirate iscrizioni e lettere: specialmente grazie a queste esercitò, riconosciuto capo dei classicisti, una vera dittatura letteraria nell'Italia del suo tempo.


LETTERA A PIETRO GIORDANI: "SONO COSI' STORDITO DAL NIENTE CHE MI CIRCONDA


Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna per rispondere alla tua del primo Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo; e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione. Gli studi che tu mi solleciti amorosamente a continuare, non so da otto mesi in poi che cosa sieno, trovandomi i nervi degli occhi e della testa indeboliti in maniera, che non posso non solamente leggere né prestare attenzione a chi mi legga checché si voglia, ma fissar la mente in nessun pensiero di molto o poco rilievo.

a Pietro Giordani, 19 novembre 1819

Nel 1819 Leopardi tenta invano di fuggire da Recanati e viene anche colpito da una malattia agli occhi che gli impedisce di leggere e studiare. In questa disperata lettera a Pietro Giordani (19 novembre 1819), descrive la noia che devasta la sua vita: un niente che lo avvolge totalmente, a cui è preferibile anche il dolore:


DOPO UN'ATTENTA LETTURA FAI L'ANALISI DEL TESTO


La lettera è l’esempio più eloquente di come le sofferenze fisiche e psichiche non siano la causa del pessimismo leopardiano (come hanno preteso tante interpretazioni volgari della sua opera, da Tommaseo a Croce), ma solo lo stimolo esterno a grandi riflessioni filosofi che, l’occasione per la presa di coscienza di verità fondamentali. Compare qui, con accenti fermi ed essenziali, degni dei momenti più alti della poesia leopardiana, un motivo centrale, quello del nulla, insieme con il motivo ad esso collegato della noia. Questa percezione acutissima del nulla segna il passaggio, nel 1819, a una nuova fase dell’esperienza leopardiana, dalle illusioni giovanili al «vero», dalla «poesia» alla «filosofia», dallo stato «antico», fondato sull’immaginazione e le generose illusioni, a quello «moderno», fondato sulla consapevolezza del nulla e della necessaria infelicità dell’uomo


COMPRENSIONE

1. Che cosa afferma Leopardi a proposito della morte? Quale significato hanno le sue parole?

2. Quali emozioni provoca la noia nell’animo dell’au tore? In che modo egli reagisce?

3. Che cosa intende Leopardi con l’espressione «con siderando ch’è un niente anche la mia disperazione» (riga 11)?

ANALISI

4. Quali termini o espressioni usa l’autore per defi nire la sua condizione psicologica? A quale campo semanti co appartengono? 5. Analizza il brano dal punto di vista della forma e individua alcune caratteristiche ti piche del genere epistolare.

6. Analizza il brano dal punto di vista del contenuto e indica quali elementi contenuti sti ci conferiscono al brano un’atmosfera tragica.

INTERPRETAZIONE COMPLESSIVA E APPROFONDIMENTI

7. Rifletti sulle osservazioni contenute nella lettera a proposito della condizione dell’uomo e collocale nel pensiero leopardiano tenendo conto della data di composizione.


Depressione: stato o moto?

L'autoritratto di Leopardi

In questo passo di Leopardi del 1819 si trova una descrizione di uno stato depressivo. Leopardi è uno scrittore noto alla maggioranza per essere "un depresso", al punto da fare del sentimento depressivo il terreno della sua poesia, con una teoria del pessimismo come destino dell'uomo e come impostazione dell'universo stesso rispetto all'uomo. Nelle sue poesie però si nota subito una cosa, e cioè il tema della fuga dalla depressione, del desiderio di una vita diversa, che poi rimane un sogno o un rimpianto magari. La depressione di Leopardi non nasce quindi in sé da una situazione di buio, ma da una oscurità che crea sofferenza proprio perché colpisce un mondo teoricamente pieno di colore. Questo contrasto significa vivere la depressione non come limite alla sopravvivenza, ma come negazione della felicità. Il depresso "Leopardiano" si muoverebbe, spiccherebbe il volo, saprebbe dove andare, di solito ha aspirazioni anche grandi, ma è come ancorato, zavorrato, frenato da una depressione che lo magnetizza dalla parte opposta, come in un crudele sberleffo. Crudele è il constatare di esser fermo e inchiodato quando invece dentro si sente un moto ad andare lontano, a sognare. Per questo a parità di limiti, i depressi "in movimento" con il pensiero soffrono molto di più di quelli semplicemente "spenti". Soffrono in maniera più concitata, e a volte quest'idea di doversi muovere per andare altrove a trovare un senso sfocia nella progettazione del suicidio, non tanto come resa al peso della depressione quando come fuga all'angoscia di voler fare ed essere invece frenato. Oppure, nel voler stare in pace, fermi ma essere costretti a muoversi a vuoto, inutilmente, in maniera frustrante, senza uno scopo e una destinazione reale. Nel passo Leopardi infatti dice che non si muove se non perché "costretto" a farlo, da una forza che lo vorrebbe altrove rispetto al dolore, ma non ha nessun luogo felice a cui inviarlo, riesce solo a farlo spostare inutilmente da seduto a sdraiato, da sdraiato a seduto, o a farlo camminare da un punto all'altro senza prospettiva. I pazienti in questo stato solitamente dicono in maniera angosciata "non so cosa fare, non so dove andare", il che evidenzia la discrepanza tra la spinta a fare e ad andare ed un cervello spento e nebuloso che non riesce a concepire la benché minima azione o iniziativa, ma rende insopportabile lo stato in cui si è.